Analisti sono convinti che l’Azerbaigian risulta un paese impreparato per la transizione energetica e meno adatto a parlare di ‘clima’. Senza petrolio e gas, l’Azerbaigian vedrebbe svanire il 95 per cento dell’attuale valore delle sue esportazioni.
Ed allora, il principale risultato che ci si aspetta dalla 29esima conferenza sul clima delle Nazioni Unite, che si tiene a Baku in Azerbaijan dal 11 al 22 novembre, è il New Collective Quantitative Goal (NCQG), il nuovo obiettivo collettivo di finanza climatica.
Per finanza climatica si intendono tutti quei flussi finanziari che vengono mobilitati per contrastare il cambiamento climatico nel mondo tramite azioni di mitigazione (riduzione delle emissioni di gas serra), adattamento (gestione del rischio climatico esistente) e risarcimento di perdite e danni (quelli già causati da eventi meteorologici estremi).
L’articolo 9 dell’Accordo di Parigi, siglato alla Cop 21 del 2015, prevede che siano i Paesi industrializzati, maggiori responsabili delle emissioni che hanno causato il riscaldamento globale, a fornire la maggior parte delle risorse finanziarie per avviare la transizione a un’economia più sostenibile nei Paesi in via di sviluppo e aiutarli a difendersi dal cambiamento climatico. Il principio che la finanza climatica dovrebbe seguire è quello delle responsabilità comuni ma differenziate, ovvero un principio di giustizia climatica secondo cui chi ha emesso di più deve pagare di più.
Le reali necessità di mitigazione, adattamento e risarcimento dei danni climatici dei Paesi in via di sviluppo, crescenti nel tempo per via dell’impatto del cambiamento climatico, si aggirano attorno ai 1.100 miliardi di dollari per il 2025 e 1.800 miliardi di dollari per il 2030.
Esistono diversi fondi climatici, tra questi l’Adaptation Fund e la Global Environment Facility, che a propria volta gestisce lo Special Climate Change Fund e il Least Developed Countries Fund. Quello che gode di maggiore disponibilità finanziaria, con oltre 16 miliardi di dollari, è il Green Climate Fund.
Alla Cop 28 di Dubai, l’anno scorso, è stata finalizzata la nascita del Fondo Loss & Damage, dedicato non alla mitigazione e all’adattamento, che servono alla gestione degli impatti futuri del cambiamento climatico, ma al risarcimento dei danni e delle perdite già causate dal cambiamento climatico.
Il Fondo Loss & Damage è governato dalla Banca Mondiale, di cui gli Stati Uniti sono il maggior contributore e che ne decidono la presidenza. Quasi la metà dei fondi gestiti dalla Banca Mondiale sono impegnati in progetti climatici e ambientali.
Il nuovo presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, una volta insediatosi alla Casa Bianca con ogni probabilità si alzerà dal tavolo dell’accordo di Parigi, come aveva già fatto nel 2016, e forse uscirà addirittura dalla convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (UNFCCC). La prima economia mondiale si disinteresserà, più di quanto non abbia già fatto, anche della finanza climatica, quando sarebbe richiesto un suo coinvolgimento molto più decisivo.
Chi dovrà pagare il conto della finanza climatica globale, e in quale proporzione, sarà oggetto di discussione tanto quanto lo sarà la negoziazione del nuovo obiettivo finanziario.
Gli Stati Uniti nel 2023 hanno dato 9 miliardi di dollari, mentre il singolo blocco che ha contribuito di più è stata l’Unione Europea con oltre 28 miliardi di dollari l’anno scorso.
Non conosciamo se e quanto la Cina sceglierà di farsi carico delle proprie responsabilità emissive, finanziando la transizione ecologica globale; tutto dipende dai delicati equilibri diplomatici che si creeranno a Baku.