Il prossimo appuntamento elettorale (25 settembre 2022) offre uno spaccato interessante sugli orientamenti politici del mondo del lavoro. Vengono meno le appartenenze ‘di classe’, e i sindacati non riescono più a ricucire la storica ‘cinghia di trasmissione’, che aveva fatto le fortune della sinistra comunista. Il problema maggiore nel rapporto con gli operai è che il Pd, ormai da anni, non li rappresenta più. Di fronte ad una sinistra desiderosa e votata alla ‘governabilità’, l’imbarazzo di fronte alla realtà è grande. Molti quadri sindacali dichiarano che per evitare l’ascesa al governo della destra occorre convincere gli operai ad accettare le scelte del Pd. La crescente marittimizzazione dell’economia, con il conseguente primato del trasporto marittimo nell’attuale sistema economico globale degli scambi, ha innescato processi verso la preminenza della portualità anche in nazioni e potenze storicamente estranee a questo tema. Una crisi economica e politica che segnano, per moltissimi aspetti, evidenti elementi di rottura con il passato e che al momento non dà segni di riallineamento o di rallentamento.
Infatti, rimane sempre difficile comprendere l’importanza dei porti (o non si vuole) come veri ‘motori’ di uno sviluppo sostenibile. In particolar modo per tutti quelli che non vivono in una città di mare e/o non hanno mai lavorato in ambiti portuali appare difficile comprendere le potenzialità economiche di un porto al servizio del territorio corrispondente. Tutta la nostra vita è impregnata da ‘consumi’ di prodotti che sono stati scalati in vari porti della nostra Italia.
Un decennio fa si declinava l’Italia come una ‘penisola – piattaforma’ logistica, protesa nel Mare Mediterraneo e poi non più sostenuta dai nostri politici. Anzi si sono interessati a una portualità ingessata e burocratica (legge 84/94 e sue modifiche) capace di contrastare investimenti industriali, e in mano alle Soprintendenze (organi periferici ministeriali) dedite a salvaguardare flora e fauna nel dimostrare la propria esistenza. Forse per le Autorità Portuali italiane è giunto il momento di concludere un dibattito che si trascina da anni e valutare se il loro inquadramento giuridico sia appropriato o meno alle sfide future.
I porti – lo sappiamo – sono anelli chiave nella produzione industriale e nelle catene di approvvigionamento. I nostri mezzi di sussistenza – cibo, lavoro, energia – dipendono da catene di approvvigionamento funzionanti e resilienti; perciò è chiaro che se un Paese marittimo/marinaro non pianifica una politica industriale efficiente/efficace i porti soffriranno un lento declino.
Il modo in cui sono gestiti i porti ha implicazioni per la crescita economica, per gli sforzi di risposta alle crisi (finanziaria, economica, occupazionale, energetica e sociale), per la protezione dell’ambiente, e per questo i porti tutti sono posti al centro dello sviluppo sostenibile. L’efficienza di un porto influisce direttamente sulle economie del Paese che serve: questo concetto oggi rimane fuori da questa campagna elettorale 2022, interessata ai soliti problemi e senza comprendere i porti come hub industriali.
Ultimi dati – Rapporto Assoporti – confermano i porti del Mezzogiorno come una risorsa strategica per il Paese; incidono molto sui flussi commerciali del traffico italiano; i dati affermano che i porti del Meridione d’Italia hanno mostrato una maggiore resilienza durante la pandemia e soprattutto in questo periodo di guerra per l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
I porti del Mezzogiorno evidenziano un ‘peso’ rilevante nel comparto dell’energia (petrolio greggio, raffinato e oggi gnl) e soprattutto nelle esportazioni via mare del nostro Paese, rappresentando terminali di importanti pipeline dal Nord Africa dall’Asia. Infatti, non v’è dubbio alcuno che l’Italia domini geograficamente il Mediterraneo centrale e che i suoi numerosi porti siano continuo oggetto del desiderio di potenze intenzionate a potenziare la propria dimensione navale e marittima in un’area così strategica. Un attacco economico di vasta portata che difficilmente può essere respinto senza una strategia nazionale unica, sicuramente connessa a nuove strutture d’indirizzo.
In questa campagna elettorale si parla poco di Zes e quando se ne parla, tutti i partiti dichiarano solo la loro partecipazione nella loro istituzione. Nessuno dei candidati – tra quelli nominati – parla delle Zes come una leva di sviluppo, capace di mettere a ‘sistema’ l’industria in genere, quella della transizione energetica, ecologica e manifatturiera di un territorio con il porto di riferimento.
Anche i lavoratori del mare e i marittimi sono dimenticati! Si tratta di lavoratori che hanno un ruolo centrale nel sistema economico internazionale. Per i politici i marittimi sono una categoria ‘invisibile’, anche se l’Italia è stato un Paese di grande tradizione marinara. Delle loro condizioni di vita e di lavoro si parla poco o nulla e sono assenti da questa campagna elettorale; si parla poco delle speculazioni armatoriali che hanno creato un’emorragia di posti di lavoro; le grandi navi da crociera (italiane) hanno licenziato centinaia di marittimi italiani a favore di lavoratori di filippini, indiani e asiatici; sulla squallida vicenda delle ‘bandiere di comodo’, nessuno è intervenuto, men che meno i nostri politici.
Non si parla dell’istituzione di un ‘Ministero del Mare’ importante per la complessità del settore dello shipping italiano ed internazionale: condurre una nave non è come condurre un treno (navigazione assistita) o come condurre un aereo (navigazione a viali controllati). Occorre anche pensare a interventi a supporto dell’innovazione tecnologica nel campo dello shipping con una costante e fattiva collaborazione con l’Università, che dovrebbe essere fucina di esperti del settore. In ultima analisi, una politica che abbia davvero i Mari – Porti – Trasporti- Uomini e Territori al centro dell’attenzione non può che comportare una crescita del PIL nazionale ed il consolidamento del nostro prestigio internazionale.