Bruxelles. Il coronavirus continua a essere la grande notizia del cluster mondiale dell’informazione scritta, on line e soprattutto sui social media. Il principale punto di preoccupazione è il rischio per la salute pubblica. Giusta preoccupazione che sta permettendo il passaggio culturale che “la salute” è un bene pubblico e non privato. Tuttavia, si parla meno dei suoi preoccupanti effetti sull’economia. Il trasporto marittimo in particolare ha visto i primi mesi di quest’anno drammaticamente segnati dall’impatto del virus Covid -19. Il settore dello shipping, ora, sta valutando come affrontare la ripresa e molti osservatori sono convinti che questa pandemia cambierà permanentemente l’organizzazione propria del processo trasportistico.
Tutto dipenderà dalla durata dell’epidemia; e si comprende che un’altra depressione finanziaria/economica globale, come quella del 2008/2009, interesserà ricadute sul settore su più anni e con sicure incertezze geopolitiche. L’unica certezza è che il commercio via mare, fra Stati, continuerà perché dovrà garantire la fornitura dei beni essenziali. Le varie Amministrazioni doganali e le Autorità degli Stati di approdo delle navi, insieme a tutte le altre agenzie dello shipping, se si vuole ripartire, dovranno stabilire un approccio coordinato e proattivo per mantenere l’integrità della catena di approvvigionamento globale in modo che il flusso merceologico dei beni vitali via mare non venga compromesso nel secondo quadrimestre di questo 2020.
Broker e analisti hanno avvertito che la caduta della domanda di trasporto di merci all’interno e all’esterno della Cina si riverserà nell’intero settore navale nei prossimi mesi. Già ora varie compagnie di navigazione stanno subendo perdite su alcune rotte e altre invece sono state annullate. Le variabili economiche dello shipping, a parità di viaggi/rotte, riguardano da sempre navi-uomini-porti e vanno messe a fuoco per la ripartenza del settore. La prima cosa da fare, come molti armatori chiedono, di prendere accordi provvisori con i Governi di tutto il mondo per i cambi di equipaggio di molte navi ferme inoperose nei porti.
Da considerare anche i marittimi imbarcati su navi che stanno navigando e che molte di esse sono impedite di entrare in paesi, vietando a quei marittimi di transitare attraverso paesi di non destinazione o trovare voli per tornare a casa. In Europa, tutti i porti (hub e di gateway) sono impegnati a rimanere operativi (anche se la loro capacità/attività portuale è stata ridotta); sono impegnati a svolgere il loro ruolo di nodi critici nella catena di approvvigionamento sviluppando la cd logistica integrata con la propria retroportualità. La Commissione Ue, espressione politica dei Governi degli Stati membri, ancora una volta, dimostra di non vedere la realtà e si lasca influenzare da euro-burocrati, impegnati da sempre a giustificare la loro presenza e il loro lauto stipendio. Con una circolare la Commissione ha deciso che gli Stati membri dovranno individuare specifici porti in cui effettuare in sicurezza i cambi degli equipaggi delle navi in questo periodo di emergenza sanitaria.
Non si comprende che se i cambi di equipaggio e i trasferimenti possono essere agevolati da e verso un porto del paese, questo potrà essere valido da tutti i porti. A queste conclusioni della Commissione si sono opposte le organizzazioni dei porti e dei terminal europei (ESPO e FEPORT) che non intendono sentir parlare di porti idonei al cambio degli equipaggi per ragioni tecniche: pensate a una nave gasiera, chimichiera o petroliera che per un cambio dell’equipaggio debba trasferirsi verso un porto con banchine attrezzate solo per traghetti. Usare l’espressione retorica di questi giorni “nulla sarà come prima” in toni ottimistici di trasformazione della società rispetto ai fallimenti delle politiche trascorse è la dimostrazione che “tutto cambia per non cambiare”.