La Via della Seta: una nuova strategia economica marittima

Articolo estratto dall’ultimo numero de Il

 

Non v’è dubbio alcuno che l’esotica ha incendiato l’immaginazione e l’interesse del popolo italiano. Infatti, ormai da tempo, numerosi rotocalchi e riviste ospitano nelle loro pagine più prestigiose parecchi articoli e reportage su quella che è ormai conosciuta come la Belt and Road Initiative. Questa improvvisa popolarità la si deve non solo dal dinamismo economico cinese, interessato ad entrare con forza e preponderanza nel mercato europeo, ma anche a causa della nostra storia, della nostra letteratura e dai secolari rapporti così ben raccontatici da Rustichello da Pisa nel Milione.

Quindi un interesse più che giustificato, capace di accendere le passioni dei più grandi economisti dei geopolitici italiani ed allo stesso tempo tutte quelle generazioni cresciute con i racconti di Marco Polo e di Salgari. Per tali motivi il recente accordo italo-cinese è stato oggetto di grande attenzione spesso analizzato nei suoi aspetti sia economici che politici non sempre in chiave positiva. Infatti tale trattato ha preoccupato e preoccupa molti illustri pensatori nostrani poiché è stato percepito come una sorta di tradimento all’Europa oltre che alla tradizionale amicizia con gli Stati Uniti d’America.

A questo punto è inevitabile fare delle considerazioni necessarie. In primis occorre sottolineare che le relazioni internazionali esistono anche, se non soprattutto, per sviluppare delle possibilità che siano economiche, politiche o anche meramente sociali. Che per loro natura proprio la stipula dei trattati tendono a creare dei canali preferenziali di sviluppo spesso a vantaggio dei firmatari e quindi a svantaggio dei non firmatari. Fatta questa doverosa precisazione occorre ribadire che l’adesione italiana ad accordi o a strategie economiche e politiche provvenienti dall’esterno dell’ambito europeo o atlantico non significhino né un cambiamento di politica estera e né la fine dell’appartenenza all’Unione Europea.

Di qui sorprende come il problema si sia concentrato solo su questo tipo d’aspetto senza affrontare quello che in realtà è l’elemento di maggior rilievo, ossia domandarsi se l’Italia si fosse dotata di quelle prerogative indispensabili per trarre il massimo vantaggio dalla stipula di tale accordo. In pratica viviamo in una nazione bellissima, ma che dal lontano 1990 fatica a realizzare quelle opere pubbliche infrastrutturali indispensabili per essere competitiva in un mondo globalizzato. Infatti se andiamo ad analizzare i vari rapporti pubblicati nel 2018 si noterà come l’Italia negli ultimi anni è rimasta indietro nello sviluppo delle sue autostradali e ferroviarie, accrescendo così diseconomie e inibendo investimenti.

Una breve analisi ci consente di cogliere come le maggiori difficoltà o, per meglio dire, le maggiori carenze della reti di comunicazione e trasporti siano concentrate nel Mezzogiorno del paese, ossia quel luogo geografico chiamato a raccogliere i maggiori frutti dell’accordo proprio per la sua posizione nel Mar Mediterraneo. In più i recenti lavori fatti a Suez non solo hanno comportato un considerevole aumento del flusso navale, ma hanno permesso l’ingresso dei giganti del mare anche dal canale egiziano.

Un problema per i nostri porti totalmente integrati nei vari tessuti cittadini, quindi con scarsi spazi retro   che storicamente dispongono di fondali bassi, adattissimi per il cabotaggio, ma non strutturati per ospitare navi con pescaggi importanti. In pratica con i recenti lavori del canale la nostra struttura portuale è stata rimandata indietro nel medioevo. Dragare i nostri porti è divenuta un’esigenza prioritaria congiuntamente alla realizzazione di quella rete intermodale indispensabile per il sistema economico e commerciale del Paese. La realizzazione e l’avvio delle Zone Economiche Speciali stenta a decollare, una buona idea, ma al momento sprovvista di una strategia comune di sviluppo e dei fondi necessari per essere competitivi in un mercato così complesso e competitivo come quello attuale.

Nel nostro paese, da sempre navale, foriero e fucina di grandi navigatori, immerso nell’unico mare capace di collegare tre continenti (infatti Mediterraneo significa mare tra le terre) mancano studi e uffici che studino il Potere Navale. Questa dolorosa assenza ha fatto si che rami così importanti per la sopravvivenza economica e politica della nostra nazione come quello del trasporto navale, dello sfruttamento delle linee commerciali e della stratificazione dei trasporti terrestri e marittimi, siano diventati non un punti di forza, ma dolorose debolezze. L’Italia con i suoi oltre settemila chilometri di coste dipende per il 90% dalle esportazioni.

Dotarsi quindi non solo delle infrastrutture necessarie per far fronte alle nuove esigenze, ma ancor più di quei uffici necessari come cattedre di diritto della navigazione, dei trasporti marittimi, di storia del pensiero navale e del Potere Marittimo divengono elementi indispensabili per il futuro della nazione. La creazione di un Ministero del Mare sarebbe un buon inizio, ma congiuntamente bisognerebbe centralizzare anche il sistema ZES. Quindi non più molteplici ZES sparse su tutto il territorio nazionale, ma un unico ufficio capace di realizzare quella strategia marittima e commerciale indispensabile per sfruttare al meglio le opportunità che il secolo della Blue Economy ci offre.

Tale ufficio consentirebbe di annullare la dannosa concorrenza tra porti, un sistema quindi che consentirebbe di specializzare quest’ultimi direzionando le proprie peculiarità in singoli settori marittimi creando così una sorta di sistema sinergico interportuale capace d’innescare economie di scala, indispensabili attrattori commerciali e d’investimenti industriali. Tale regia centralizzata consentirebbe  anche e soprattutto la rinascita del sistema industriale ampliandolo proprio nel Mezzogiorno del paese consentendo così una più equa ridistribuzione a livello nazionale ed europeo. Un dramma che viviamo sin da prima dello Stato unitario.

Sembra difficile che la singola ZES campana possa da sola affrontare le sfide economiche e commerciali lanciate da colossi politici ed economici come la Cina, la e l’America. Sviluppare una strategia di lungo periodo, la centralizzazione dell’apparato dei sistemi di e la loro connessione al sistema nazionale ed europeo, strutturare un ufficio che possa essere trait d’union tra , del Mare, del Commercio, in pratica realizzare una struttura capace di definire e studiare un possibile potere navale italiano, sono divenute necessità inevitabili per fronteggiare le nuove esigenze del sistema marittimo mondiale.

Per cui la stipula dell’ divenuta negli ultimi anni potenza talassocratica potrebbe finalmente dare quella spinta necessaria per strutturarci come nazione marittima e non più terrestre. Spetta solo a noi cogliere questa opportunità poiché la nostra ricchezza è solo nel mare e per il mare, un assioma sempre più evidente soprattutto oggi che viviamo nel secolo della Blue Economy.

Alessandro