Articolo estratto dall’ultimo numero de Il Nautilus
Le vicende delle navi Open Arms, Aquarius e Sea Watch 3 sono ben note e, pertanto, in tale sede ci sembra superfluo ripercorrerle. Esse hanno creato molto interesse e dibattito a livello internazionale su decisioni adottate dalle autorità governative di Stati, tra cui l’Italia, di interdire l’ingresso ai propri porti e di vietare lo sbarco di persone che migrano da Paesi terzi e, infine, all’ordine, come pure l’avvertimento delle navi private armate da ONG di non entrare nel mare territoriale. Ma dovendo analizzare giuridicamente tali vicende è d’uopo usare la lente del diritto internazionale del mare.
Premesso che la sovranità dello Stato costiero si estende “al di là della terraferma e delle acque interne e, nel caso di uno Stato arcipelagico, nelle sue acque arcipelagiche su una zona di mare adiacente denominata mare territoriale” (art. 2, par. 1 Convenzione di Montego Bay ), in materia di ingresso delle navi nei porti degli Stati è stata codificata la presunzione a favore del diritto dello Stato costiero di interdire l’accesso ai porti in virtù di consolidati precetti che attribuiscono agli Stati sovranità piena sul mare territoriale. Per mare territoriale deve intendersi lo spazio marittimo compreso tra il territorio e le acque interne, da una parte, e lo spazio su cui si esercita la sovranità dello Stato rivierasco, dall’altra, ovvero quella zona di acque marine che costeggia il territorio dello Stato e sulle quali, per l’appunto, si estende la sovranità del medesimo.
Tale assunto comporta che nessuno Stato è obbligato a permettere a navi che battono bandiera di altri Stati di fare ingresso nel proprio mare territoriale, come pure nei suoi porti, tranne in casi di pericolo o di forza maggiore o qualora ciò sia previsto nei trattati bilaterali o multilaterali. In merito alla possibilità della “chiusura” dei porti l’ormai risalente Convenzione di Ginevra del 9 dicembre 1923 sul regime internazionale dei porti marittimi, resa esecutiva in Italia, con Regio Decreto 8 maggio 1933 n.1270, (abrogato con Decreto legislativo n.212 del 13 dicembre 2010) e in vigore dal 14 gennaio 1934, aveva già previsto (art. 16), seppur da un punto di vista commerciale, la possibilità di derogare al principio generale di libertà di accesso delle navi straniere, ancorché in casi eccezionali e per avvenimenti gravi, riguardanti la sicurezza del Paese o i suoi interessi vitali.
Con l’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982 è stata codificata la consuetudine internazionale in base alla quale lo Stato può subordinare l’accesso ai suoi porti da parte delle navi straniere al soddisfacimento di determinate condizioni. Ciò risulta, implicitamente, dal combinato disposto degli articoli 19 e 25 par. 2, relativi ai diritti di protezione dello Stato costiero. L’art. 19, par. 2, stabilisce che il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato è permesso “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”.
La disposizione ha natura meramente esemplificativa, ma la lettera g) del comma 2 precisa che tra le attività che potrebbero portare a considerare il passaggio non inoffensivo c’è anche “il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. Tra le attività per cui lo Stato può quindi legittimamente sospendere il diritto garantito a tutte le navi dall’art. 17 UNCLOS, vi è sicuramente il trasporto di migranti irregolari, di cui la disciplina è rimessa alla normativa nazionale.
Una simile attività difatti potrebbe ben essere considerata una minaccia al territorio nazionale, o, per lo meno, un’attività illecita da impedire. In questo modo si realizzerebbe quella protezione della sicurezza delle acque territoriali italiane minacciata da traffici illeciti in cui le navi ONG potrebbero essere individuate come partners in crime per attività più simili a taxi del mare che a soccorsi veri e propri. E’ vero infatti che, oltre a negare l’ingresso nel mare territoriale, lo Stato costiero può rifiutare l’ingresso nei propri porti conformemente all’art. 25 par. 2 UNCLOS, nel quale è specificato che questo “ha anche il diritto di adottare le misure necessarie per prevenire ogni violazione delle condizioni alle quali è subordinata l’ammissione di tali navi nelle acque interne o a tali scali”.
Gli Stati costieri hanno la potestà di avvertire le navi che si dirigono verso i loro porti sulle condizioni a cui l’ingresso di queste navi è consentito, prima che facciano ingresso nelle acque territoriali di ciascuno stato. Secondo la prassi internazionale solo una nave che si trovi nel reale e tangibile pericolo, tradizionalmente, ha il diritto di ricevere il semaforo verde per poter far ingresso verso un porto, un terminale al largo o un altro luogo di rifugio e, in assenza di concreto pericolo, tale diritto verrebbe meno. A questo punto verrebbe da chiedersi come possano armonizzarsi tali disposizioni con l’obbligo di soccorso in mare sancito dalla Convenzioni SOLAS.
Ebbene l’articolo 98, par. 1, UNCLOS determina che “Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri :a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa; c) presti soccorso, in caso di abbordo, all’altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all’altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo”.
Se leggiamo attentamente la norma non rinveniamo alcun obbligo di intervento diretto da parte dello Stato. Quest’ultimo deve garantire che le navi battenti la propria bandiera, qualora si trovino in presenza di naviglio in pericolo, intervengano tempestivamente per prestare assistenza. Chiaramente, l’obbligo di prestare soccorso non è assoluto, ma è condizionato dalla circostanza che la nave soccorritrice, il suo equipaggio e i suoi passeggeri non siano posti in pericolo. Lo status di pericolo viene di solito reclamato da navi nel mare territoriale dello Stato costiero e non in mare aperto, tuttavia è plausibile la ragione che tale diritto valga pure per le navi che si trovano al largo delle acque internazionali.
La UNCLOS definisce alcuni concetti fondamentali, a partire dai limiti marittimi che si estendono a partire dalla costa e che segnano, con l’allontanarsi dalla stessa, il progressivo venir meno della sovranità statale. Anche nella fascia più vicina alla costa, quella delle cosiddette “acque territoriali”, esiste un diritto di passaggio inoffensivo (sancito nell’articolo 17) da parte delle navi straniere, “sia per traversarlo, sia per entrare nelle acque interne, sia per prendere il largo provenendo da queste”, e purché il passaggio sia “continuo e rapido”. Quanto al diritto interno occorre ricordare che l’articolo 83 del Codice della Navigazione, sancisce che “Il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti può limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione e, di concerto con il Ministro dell’ambiente, per motivi di protezione dell’ambiente marino, determinando le zone alle quali il divieto si estende”.
Rebus sic stantibus il nocciolo della questione, certamente, è comprendere se le navi Aquarius, Open Arms e Sea Watch 3 si trovassero concretamente nell’ambito del reale pericolo. Per comprendere ciò, è sufficiente la lettura della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo (SAR), adottata ad Amburgo il 27 aprile 1979, in cui la nozione di pericolo (distress) è stabilita nel par. 1.3.11 “una situazione in cui vi sia ragionevole certezza che un’imbarcazione o una persona sia minacciata da un pericolo grave ed imminente e che richieda immediata assistenza”.
Il distress è interpretato dai centri nazionali di coordinamento del soccorso in modo difforme, con ciò determinando ritardi ingiustificati nel rispondere a eventi SAR. La disposizione si accorda con l’art. 18, par. 2, UNCLOS consente a una nave straniera di interrompere il proprio passaggio inoffensivo nelle acque territoriali dello Stato costiero, senza violare le norme che disciplinano il passaggio medesimo, qualora tale interruzione sia finalizzata a prestare soccorso a persone e navi in pericolo o in difficoltà.
Ma il paragrafo 3.1.9 SAR sancisce che l’obbligo dello Stato responsabile della zona in cui viene prestato il soccorso non è necessariamente quello di accogliere le navi nei propri porti quanto di coordinare le operazioni e cooperare affinchè la nave che ha garantito il primo soccorso possa approdare in un luogo sicuro (place of safety), determinato dall’autorità SAR, dove far sbarcare momentaneamente i passeggeri. Pertanto, la suddetta circostanza, tuttavia, non implica automaticamente che tale Stato sia tenuto ad autorizzare l’ingresso della nave all’interno del proprio porto (e lo sbarco sul territorio) degli individui soccorsi.
Qualora il quadro a bordo delle navi fosse classificato adeguatamente come pericoloso, si ritiene che anche in questo caso lo Stato possa ancora porre il diniego nei riguardi della nave di procedere al suo ingresso nel proprio mare territoriale per raggiungere un porto, qualora avesse fornito l’assistenza sanitaria immediata e i primi interventi agli individui che si trovavano a bordo di essa. Lo Stato costiero non è strettamente vincolato a concedere il permesso di ingresso alla nave come tale se la vita delle persone che si trovano a bordo non sia concretamente e totalmente in serio pericolo.
Alla luce di tali osservazioni l’Italia, dunque, è nel pieno diritto, ai sensi del diritto internazionale generale, di regolare, come pure inibire, l’ingresso nei suoi porti, soggetto all’eccezionalità di navi che sono in situazioni di scarsa sicurezza oppure in pericolo. Pure in questi casi, quindi, può ancora negare l’accesso, a condizione che le dovute misure siano adottate direttamente nei confronti degli individui che sono a bordo al termine della situazione di pericolo.
avv. Alfonso Mignone