I porti italiani possono apparire ed essere, forse a giusta causa, considerati oggi, a differenza del passato prossimo, come croce e delizia del sistema commerciale e trasportistico italiano anche in considerazione dell’inquadramento giuridico che di recente ne vuole fare una “macchina da guerra”, una catena del trasporto per lo sviluppo complessivo commerciale ed industriale, dell’intero Paese che, come sicuramente noto ai più, possedendo la nostra penisola migliaia e migliaia di chilometri di coste, alcune delle quali attrezzate proprio come porti, tralasciandone in questa sede le classificazioni, ne consentirebbe un significativo sviluppo. Tali aspetti positivi, però, nell’ultimo triennio circa, sono affiancati da pressanti esigenze di cambiamenti sia in chiave di ripensamento di nuove ed efficienti reti di infrastrutture interne che in termini di retroportualità. In pratica si assiste di recente ad un vero e proprio attacco al modello amministrativo dei porti italiani quasi desueto ed anacronistico se paragonato ai modelli europei frutto di mercati monopolistici e di azione potestative della pubblica amministrazione che non hanno consentito lo sviluppo del libero mercato dell’area territoriale portuale rimasta, quindi sofferente.
Se è vero come è vero che il porto appartiene alla categoria dei beni pubblici, specificatamente demaniali, ne discende che esso deve operare seguendo i criteri della libertà dei servizi in un sistema protetto ma concorrenziale dove per protezione si vuole intendere professionalità ben posizionata rispetto ai servizi specialistici che il porto necessariamente deve avere per lo svolgimento del suo “oggetto sociale”.
Ma come si può, in alcuni casi, accettare la spinta, ed oserei dire, atecnicamente, la volontà degli organi di giurisdizione Europea tendenti a bacchettare da più di un quinquennio l’azione marinaresca Italiana su più fronti, quando di converso l’uso del mare e delle sue pertinenze obbliga la governance portuale a mantenere alcune posizioni consolidate, magari nel tempo a fronte di una assenza di interlocutori aziendali ed imprenditoriali altamente specialistici, al pari di quanto richiesto dai servizi portuali, ad esempio, e da quelli dettagliatamente individuati come tecnico nautici?
Non è dato sapere se il diritto internazionale sancisce il principio della assoluta libertà dei traffici nei mari e quindi poi il corrispondente approdo sicuro, abbia considerato la forza dei cambiamenti, sia derivanti dalla produzione giurisprudenziale, sia derivante dalla legislazione interna e qui, dall’esercizio della azione governativa e di alta amministrazione che, come noto e letto su più parti, vuole superare l’impostazione del codice della navigazione per sbarcare in una più moderna ed efficiente visione del bene porto votato all’efficienza e quindi alla massima dinamicità nell’azione congiunta e coordinata tra le Adsp e le Autorità Marittime ed i Comuni interessati allo sviluppo del porto ed alla gestione operativa delle sue banchine.
Fatte tali premesse e considerazioni il punto di partenza è la natura giuridica e la veste organizzativa della Adsp, oggi in numero di quindici presenti sull’intero territorio nazionale; ente pubblico dotato di autonomia di bilancio e finanziaria soggetto alla vigilanza del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, ovvero al controllo di legittimità della Corte dei conti. Adsp risultano essere soggetti regolatori e persecutori dell’interesse pubblico quali, lo sviluppo dei traffici e dell’occupazione portuale, che utilizzano gli strumenti amministrativi provvedimentali dei regolamenti e dell’ordinanza.
Sancito è il divieto assoluto per le Adsp di esercitare operazioni portuali.
Ma nel biennio 2017/2018, proprio come la magia che pervade la favola il cui protagonista è Harry Potter, si sono definiti in Italia, come per incanto, pur se sono note e presenti strutturalmente da decenni in altre nazioni non solo del continente Europeo, diremmo finalmente, alcuni ambiti spaziali denominati zona economica speciale e zona franca doganale quali istituti capaci di tenere saldi e di sviluppare gli antichi e proficui rapporti mare-terra che così sintetizzerei: le prime che consentono alcuni vantaggi per gli imprenditori che vanno dagli incentivi statali ai bassi costi di produzione, in un facile accesso ai mercati internazionali, con le seconde che si fondano su esenzioni fiscali e contributive nelle misure totali o parziali e si rivolgono a determinate categorie di imprese come ad esempio quelle agricole di piccola e media estensione che uscivano dai noti contingentamenti europei. Queste premesse se da un lato stimolano molto il Governo centrale in termini di azioni positive per la crescita economica del Paese, dall’altro stanno agendo, in termini di spinta energica, sull’adozione del Piano Regolatore di Sistema Portuale, necessario a fare la differenza anche fra le stesse Adsp impegnate nel coordinamento, nel controllo e nella pianificazione progettuale delle funzioni portuali e retroportuali nella interconnessione coi sistemi trasportistici urbani, considerando sempre l’ecosostenibilà degli investimenti a farsi.
Retroportualità, fisco e infrastrutture sembrano appartenere alla volontà del giovane mago che, complice la bacchetta magica, invola desideri su desideri che in alcuni casi sono vere magie, come quella che si auspica possa allontanare dalle aree portuali, spesso anguste e ristrette, i punti di controllo ed i varchi doganali al fine di velocizzare la circolazione delle merci, con particolare riferimento all’immediata partenza verso i luoghi di destinazione e quindi di consegna. Soppesare poi le zes interregionali sarà una operazione difficile, e se realizzata, arguta, in quanto il rapporto benefici, infrastrutture di collegamento, estensione zone depresse economicamente, risulta di non facile approccio se pur in chiave tecnica.
Molte aspettative, molte concomitanti e collegate funzionalmente, quindi, volteggiano sulle teste delle governance portuali e su quella dirimente del ministero competente: l’appeal sembra notevole ed i risultati auspicati pure. Zes e zona franca sono armi micidiali di sviluppo economiche anche, ed in special modo per investitori stranieri attratti dalle potenzialità logistiche del mare Mediterraneo. Free zone a tutto campo quindi con lo scopo di sviluppare i traffici del made in Italy.
Accennare alle potenzialità del -Bri-, belt and road iniziative, ovvero le nuove vie della seta, in fase di studio a Pechino, avente l’obiettivo di interessare la maggior parte dei nostri porti e non solo, i più impegnati nei traffici internazionali quali Genova e Trieste ad esempio, deve vedere parte attiva le strutture managierali statali in un obiettivo di reale inserimento nelle nuove autostrade del mare in termini di geopolitica portuale e dell’uso del mare, fonte inesauribile di cui la Nazione dispone in abbondanza.
Lo sviluppo dei noli marittimi con margini di guadagno significativi ha creato una corsa alla costruzione di navi sempre più grandi, specie per il trasporto di rinfuse e di container. Ma il vero problema parrebbe quello dell’incantesimo commerciale in cui può o potrebbe cadere il bacino del Mediterraneo accerchiato da un lato dalla via della seta strada ferrata cinese e dall’altro dalle grandi compagnie di shopping container utilizzando il canale di Suez e baippasando gli scali portuali del Mediterraneo.
Un quadro che impone, inevitabilmente scelte commerciali intense, ovvero una sorta di trasversalità tra Paesi lontani ma accomunati dagli scopi commerciali, per l’appunto un tutt’uno con lo short-sea shopping ovvero un sistema logistico in controtendenza con quello che sviluppa i commerci passanti per il canale di Suez per poi raggiungere i ben noti grandi porti del nord Europa.
Quindi e volendo scomodare le famose gesta di magia lo sviluppo futuro dei porti in Italia parrebbe, salvo qualche eccezione, l’incantesimo del mantello respingente ogni onda luminosa che appena intercettata, sparisca come per magia: molti gli argomenti con un unico comune multiplo, il trascorrere del tempo. Si proprio il tempo che rende magico un sogno e stupisce la realizzazione razionale dello stesso. Una sfida quella dello sviluppo intercontinentale dei porti, che se impostata in maniera certa ed in alcuni casi solidale tra gli attracchi, potrà vedere la realizzazione di buona parte di quanto normato a vantaggio della crescita economica del Paese senza accusare viceversa il rischio di passi in avanti di alcune Adsp a svantaggio di altre, mettendo in seria crisi l’intero sistema della portualità italiana che non consente, a mio modesto parere, balzi singoli in avanti, almeno per quanto attiene le scelte strategiche che rimarrebbero, viceversa, all’interno del -mantello invisibile- per poi scomparire. E di invisibilità non se ne sente proprio la mancanza!
Teodoro Nigro