BRINDISI – In tutti i convegni dedicati alla portualità, parlare di zone economiche speciali è divenuta una moda, quasi che la riforma della portualità italiana dell’anno scorso sia già superata e centrata solo ed esclusivamente sulle Zes. Per anni si è sottolineato che il sistema portuale italiano doveva, deve e dovrà essere un tutto unico: cioè riunire tutte le autorità portuali sotto un’unica regia centrale (questa la filosofia del Ministro Delrio e del Governo Gentiloni).
Mettere i porti italiani in uno scenario promozionale di mercato – offerta unitaria – ciascuno con la propria vocazione – oggi si direbbe con le proprie funzioni portuali -. Senza competizione da parte delle AdSP all’interno della propria area marittima favorendo alcuni porti a svantaggio di altri e senza dichiarazioni di presunte funzioni portuali specifiche per alcuni scali a discapito di altri.
Lo sappiamo che alcuni porti, in un sistema portuale, sono adatti ad accogliere grandi navi portacontainer, altri adeguati al traffico ro-ro, altri alle crociere e altri ancora per le rinfuse solide e liquide. Certo è che non tutti i porti possono fare transhipment, non tutti possono essere gateway e non tutti hanno adeguati pescaggi e banchine per gli ormeggi di navi moderne e post-moderne. Come pure, grande rispetto meritano quei porti che hanno specchi acquei tali da poter gestire una polifunzionalità naturale e non costruita e attrezzati con una retroportualità funzionale.
E questi porti, per meritarsi lo stesso diritto allo sviluppo degli altri, dentro uno stesso sistema portuale, non possono aspettare anni nell’attesa di vedere sviluppare piccoli approdi a livello di porti. Ora, istituire zone economiche speciali (Zes) che coinvolgono i territori dei porti, può sicuramente essere uno strumento di politica industriale per lo sviluppo economico della portualità; come? Occorre prima di tutto implementare il tessuto produttivo della regione che gravità su quel determinato porto; poi occorre una politica di agevolazioni doganali, fiscali e finanziarie per attirare l’attenzione delle grandi multinazionali manifatturiere e non che, situandosi in prossimità degli scali portuali, intendono abbattere i tempi di transito di merci e materie prime.
L’importante è condividere una strategia politica chiara sia da parte della Regione e sia del Governo, per consentire all’Autorità di Sistema Portuale di operare con un orizzonte di gestione chiaro nei confronti delle aziende di spedizioni marittime e quelle della logistica. Sostanzialmente, in una retroportualità, interessata dallo strumento industriale della Zes, non si può includere territori a “macchia di leopardo” interessati da aziende con programmi di sviluppo superati, in cerca solo di sostegni economici da parte di Enti locali, regionali, nazionali e dell’UE; ma aziende solide sul mercato e con una seria progettualità industriale, da permettere uno sviluppo economico sostenibile per quel territorio, servito da quel porto.
Sicuramente non basta un decreto istitutivo di una Zes per risolvere tutti i problemi economico-occupazionali di quel porto con la sua retroportualità grande o piccola che sia. Bisogna sfuggire da una campagna elettorale, come quella già in atto, in cui vari rappresentanti politici rivendicano per il loro collegio una partecipazione territoriale alla Zes. Una Zes deve e dovrà essere promossa tra le business community internazionali e per non vanificare questo strumento di sviluppo industriale, occorre chiarezza e trasparenza nella progettualità territoriale.