IL RAPPORTO 2017 DELL’UNCTAD SUL TRASPORTO MARITTIMO

BRINDISI – “Oltre l’ottanta per cento del volume del commercio globale e più del 70% del suo valore viene trasportato annualmente via mare”: prende così avvio l’annuale rapporto edito dall’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo) che, dal 1968 in poi, tiene sott’occhio lo stato di salute del comparto dei mari, dalle volubilità del mercato sino al commercio, passando, inoltre, per i grandi mutamenti legislativi e le evoluzioni infrastrutturali.

Lo scorso anno la portata lorda dell’intera mondiale – dall’iperbolico valore di 828 miliardi di dollari – si è assestata attorno agli 1,86 miliardi di tonnellate, maturando al contempo una crescita pari al 3,2% rispetto al 2015. Non bastano, invece, gli oltre 10 miliardi di tonnellate di merci trasportate via mare nel 2016 per interrompere un mantra, quello dell’incertezza, che sembra ripetersi a più di qualche latitudine: nonostante il rapporto, ad esempio, strizzi l’occhi agli imminenti accordi di libero scambio tra l’Unione Europea e, rispettivamente, il Canada ed il Giappone, continuano a spaventare i funamboli dell’amministrazione Trump e di quella di Xi Jinping così come la stessa Brexit.

Così come si iniziano ad avvertire i primi bollori derivanti dall’incessante processo di consolidamento e concentrazione in atto nel mercato marittimo che, causa potenziali derive oligopoliste, richiederà negli anni a venire una revisione delle regole del gioco. D’altro canto non si può sminuire l’apporto fornito dalle alleanze monstre nel trasporto contenitori – 2M, Ocean Alliance e The Alliance – nella razionalizzazione delle flotte operative e, soprattutto, nella lotta all’eccesso di stiva: quest’ultimo, nel solo 2016, è costato ai grandi signori del mare qualcosa come 3,5 miliardi di dollari ma, complice l’aumento delle demolizioni navali, dovrebbe lentamente declinare.

Lo stesso rapporto, inoltre, segnala come, lo scorso anno, gli stati nazionali abbiano speso una media del 15% del valore delle loro importazioni tra costi di trasporto e costi assicurativi; il valore aumenta sino al 22% nel caso di economie in via di sviluppo, stati insulari nonché nazioni prive di sbocco sul mare. Dietro l’angolo, difatti, ci sono plurime variabili come, ad esempio, la scarsa efficienza infrastrutturale dei porti, le limitate economie di scala nonché la costante diminuzione di operatori marittimi – corroborata dal processo di consolidamento dell’intero comparto – sicchè la situazione, specie nelle economie più claudicanti, potrebbe assumere contorni più severi.

Ecco perchè la mano pubblica dovrà intervenire congiuntamente a quella privata nel grande processo di ristrutturazione dei porti; tra l’altro, nel periodo 2000-2016 circa 68,8 miliardi di dollari di investimenti privati sono stati destinati a circa 292 progetti infrastrutturali riguardanti, rispettivamente, terminali multimodali, canali per navi portacontenitori, strutture per navi dedicate ai traffici liquidi e solidi, strutture di accoglienza per il traffico civile ecc. Ancora una volta serviranno partenariati, serviranno nuove regole.

 

Stefano Carbonara