BRUXELLES – Il preambolo non è dei migliori: “le strategie di sviluppo portuale a lungo termine poste in essere dagli Stati membri e dalla Commissione non hanno costituito una base solida e coerente per pianificare la capacità necessaria nei porti dell’UE e per individuare i finanziamenti dell’UE e i finanziamenti pubblici nazionali necessari per le infrastrutture portuali”. Inizia così la recente disamina con cui la Corte dei Conti UE ha acceso i fari sugli investimenti di 19 scali comunitari tra il 2000 ed il 2013.
Dalle duecento pagine dell’elaborato, privato di qualsivoglia tinta rosea, emerge prepotentemente l’assunto che la spesa comunitaria per la portualità abbia oramai raggiunto un livello di inefficienza non più sostenibile. Si legge, infatti, che “sulla base di 30 dei 37 progetti esaminati e già completati tra il 2000 e il 2013, un euro su tre (corrispondente a 194 milioni di euro per 12 progetti) è stato finora speso senza efficacia. Circa la metà di questi finanziamenti (97 milioni di euro di finanziamenti UE per nove progetti) è stata investita in infrastrutture che non sono state utilizzate o sono state fortemente sottoutilizzate per oltre tre anni a contare dalla conclusione dei lavori”.
Vale a dire, a prescindere dalla generosa contribuzione pubblica, gli scali portuali lamentano sovente un tasso di utilizzo bassissimo e pagano ritardi epocali nell’adeguamento delle proprie infrastrutture: 12 dei 30 progetti esaminati, ad esempio, hanno registrato ritardi nell’esecuzione dei lavori nell’ordine del 20%, causandone, peraltro, costanti sforamenti dei tetti di spesa.
In tutto ciò, anche i porti italiani non sono immuni da tali patologie nonostante il nostro belpaese sia secondo solo alla Spagna nella ricezione di finanziamenti comunitari destinati alla portualità (i dati de quo si riferiscono alla programmazione 2007 – 2013): si legge nel report che “il sistema italiano consta di una moltitudine di piccoli porti caratterizzati da inefficienze di scala e scarso potere di mercato rispetto agli operatori dei terminali di livello mondiale”. Il terminal contenitori del porto di Taranto, ad esempio, viene bollato come “infrastruttura vuota o fortemente sottoutilizzata”, nonostante gli oltre 38 milioni di euro investiti durante il periodo di programmazione 2000 – 2006.
I porti sulla costa nordoccidentale della nostra penisola, da Genova a La Spezia passando per Livorno e Savona, hanno congiuntamente predisposto interventi finalizzati all’aumento del 50% della loro capacità TEU’s, finendo per cannibalizzarsi l’un con l’altro: “nel 2014 – precisano gli auditor – i tassi di utilizzo del terminal container erano circa del 20 % a Savona, 65 % a Livorno, 74 % a La Spezia e 77 % a Genova”. La medesima miopia strategica si è manifestata nel nord adriatico tra i porti di Venezia, Trieste e quelli istriani per quanto concerne lo sviluppo del traffico crocieristico.
A conclusione di una così poco edificante lettura, la Corte dei Conti, tuttavia, ha stilato una serie di raccomandazioni per la Commissione Europea: la vigorosa terapia d’urto per i nostri scali dovrà passare, prima di tutto, da un maggior monitoraggio delle capacità dei porti core nonché dalla rivisitazione del numero attuale degli stessi (attualmente sono 104, ndr.); al fine di garantire parità di trattamento a tutti gli operatori, bisognerà intervenire sull’armonizzazione della disciplina riguardante sia i c.d. aiuti di Stato che i controlli doganali.
Ma, dichiarano gli auditor, la vera sfida riguarderà l’erogazione dei finanziamenti: “non vi è coordinamento all’interno della Commissione nella valutazione dei progetti finanziabili né le procedure operanti tra la BEI (Banca europea per gli investimenti, ndr.) e la Commissione per valutare i prestiti proposti dalla BEI per le infrastrutture portuali hanno sinora funzionato adeguatamente”.
Stefano Carbonara