Molti programmi dei vari candidati “sindaco” delle città di mare in cui si svolgeranno l’elezioni amministrative di maggio prossimo, sottolineano il “porto” come motore di sviluppo dell’intero territorio. Qualche puntualizzazione potrebbe essere utile, almeno nei due schieramenti politici che hanno generato quel “bipolarismo” tutto italiano.
Forse è stata la “crisi” a portare all’attenzione dei media e dei prossimi candidati a “sindaco” la portualità e tutto l’intorno dell’economia marittima di una città; prima, l’arrivo di una nave in porto era solo l’occasione per gustare una passeggiata “lungo mare” e nientr’altro! Nel frattempo, mentre si passeggiava, i traffici marittimi e portuali sono cambiati, la merce viene trasportata diversamente, sono nati i treni portuali, si è andato e si va verso l’intermodalità, l’integrazione dei sistemi portuali e la logistica è divenuta una industria a tutti gli effetti.
Alcune realtà hanno subito la “demarittimizzazione delle città portuali”, senza nessun valore aggiunto, soggiacendo alla dominazione di una esclusiva funzione portuale, cioè quella di movimentare solo risorse energetiche. Questa riflessione ci porta a considerare che il vero valore aggiunto di una città portuale è l’occupazione indotta generata dal porto e non solo quella relativa alle attività portuali semplici.
Ed allora, i candidati “sindaco” dovrebbero indicare quale “sviluppo del porto” intendono perseguire; quali azioni a breve termine mettere in atto; quali attività economiche e mediazioni politiche per poter attrarre occupazione, soprattutto per le città meridionali che hanno il tasso di disoccupazione a due cifre.
Dal punto di vista tecnico, diciamo che occorre ri-marittimizzare un territorio: cioè essere capaci di creare una rete, anche vasta, di eccellenza (istituzioni, imprese, centri di formazione) che, con un certo piglio speranzoso, metta il porto, con tutte le sue dimensioni geo-economiche, al servizio di un nuovo modo di lavorare (logistica piena) e non pensare al passato, per rimanere nel presente ed aspettare che il futuro ci passeggi verso il “lungo mare”.
Abele Carruezzo