Il presidente della nautica italiana da diporto lancia l’allarme: “Lo stop produttivo indicato dal DPCM decreta morte del settore”

, numero uno di AFINA e PNI, chiede al presidente del CdM Giuseppe Conte ed ai Governatori di diverse regioni di apportare una deroga ad DPCM del 22 marzo

Napoli- La italiana da diporto lancia un grido d’allarme a seguito del decreto Chiudi Italia. La sospensione delle attività produttive dell’intero comparto del settore, come indicato dal DPCM del 22 marzo u.s., comporterà danni irreparabili all’intera filiera che rappresenta il 5% del Pil nazionale e fattura circa 6 miliardi di euro annui.

Lo stop imposto costringerà non solo oltre 100mila lavoratori della filiera a sospendere il proprio lavoro, ma soprattutto interromperà l’anno produttivo del segmento con le consegne estive programmate da aprile a giugno pertanto, conseguentemente, comporterà un blocco certo del settore sino alla prossima campagna produttiva dell’estate 2021.

In una lettera inviata al Giuseppe Conte, ma anche ad altri Ministeri di riferimento ed ai Governatori delle regioni che rappresentano gli oltre 7.500 km della , il presidente dell’Associazione della Filiera Nautica Italiana e del Italiano, Gennaro Amato, ha sottolineano l’urgenza e la necessità d’intervento in favore della nautica da diporto. Nella missiva (in allegato) il numero uno di AFINA e PNI sottolinea in alcuni passaggi:

“Il decreto senza mezzi termini sferra un colpo mortale all’industria della nautica da diporto (….) Non capiamo come sia stato possibile non tener conto di un settore come il nostro e dell’indotto che ne consegue tanto da decretarne la morte certa (…) Facciamo appello alla Vs. sensibilità affinché si possano apportare delle deroghe urgenti che ci consentano di continuare la nostra attività pur nel rispetto dei decreti con la messa in atto di tutte le misure necessarie per la tutela dei lavoratori”.

La richiesta d’intervento, per la modifica in deroga del DPCM del 22 marzo, riguarda la cantieristica da diporto che, senza una misura d’introduzione nelle attività consentite, costringerebbe molti imprenditori a sospendere i contratti dei lavoratori e soprattutto a dover far fronte a capitali privati investiti per la produzione con le conseguenziali esposizioni bancarie alle quali sono soggetti.