RIVOLUZIONARE LA POLITICA MARITTIMA ITALIANA, PAROLA DI LUIGI MERLO

luigi merlo

Ho sempre nutrito qualche perplessità verso chi, nel nostro paese, maneggia il verbo “rivoluzionare”. Perché, detto tra noi, non siamo un paese a cui piace stravolgersi più di tanto.

Devo tuttavia ammettere che, leggendo l’ultimo libro di Luigi Merlo dal titolo “Rivoluzionare la politica marittima italiana. Per un vero Ministero del Mare”, non ho mostrato alcuna titubanza. Anzi, sin dalle prime pagine, mi sono immediatamente convinto dell’appropriatezza del titolo – e del monito – lanciato dall’autore del libro.

Perché, lo ammette lui stesso, “stiamo diventando un popolo di bagnanti, più che di navigatori” e, prima che l’insipienza prenda il sopravvento, occorre ridefinire la nostra politica marittima. E Merlo, con grande autorevolezza, prova ad immaginare per essa una possibile rotta, istituendo un vero e proprio “Ministero per la Tutela e la Valorizzazione dell’Economia del Mare”. Vale a dire, un soggetto – diametralmente opposto al buon vecchio Ministero della Marina Mercantile – avente come unico denominatore il mare e in grado di governare e coordinare le politiche del mare dal punto di vista economico, industriale, ambientale, energetico e culturale.

Ad accompagnare questa proposta, vi sono poi una serie di spunti, anch’essi di primissimo piano, con cui Merlo delinea questo grande disegno riformatore: penso, in ordine sparso, al bisogno di una “Coldiretti del Mare”, al tema dell’armonizzazione dei rapporti tra Ministero dei Trasporti e ART, passando inoltre per la nuova governance portuale e la revisione – razionalizzazione del sistema logistico nazionale.

Suggestioni, a mio parere, fin troppo delicate che, per questo motivo, meritano un opportuno chiarimento e approfondimento direttamente con l’autore del libro.

Dott. Merlo, la ringrazio anzitutto per la disponibilità a concedermi quest’intervista. Parto dal titolo della sua opera, “Rivoluzionare la politica marittima italiana. Per un vero Ministero del Mare”. Quante possibilità ci sono per l’Italia di disporre di un Ministero del Mare?

“Le possibilità esistono ma il percorso non è affatto semplice. La recente costituzione del Ministero delle Politiche del Mare rappresenta certamente un passo in avanti ma bisogna far di più, ad esempio, conferendo allo stesso Ministero competenze in materia marittima oggi in capo ad altri Ministeri. Sarebbe opportuno, per esempio, che il Ministero disponesse di competenze in tema di pianificazione dello spazio marittimo, in materia ambientale (occupandosi direttamente delle questioni attinenti alla tutela della costa e alla lotta al cambiamento climatico) e, inoltre, per quanto attiene lo sviluppo dell’Eolico Offshore”.

Mi ha colpito fortemente il capitolo n. 25 dal titolo “Modelli Associativi: una Coldiretti del Mare”. Riporto a tal proposito un passaggio in cui Lei afferma: “eppure il mondo delle associazioni imprenditoriali ha sempre storicamente trainato Shipping e sistema portuale verso crescita e sviluppo, ha imposto protagonisti assoluti capaci di incidere sulle scelte politiche, si è caratterizzato spesso come contropotere rispetto a governi e forze sociali”.

Vengo alla domanda: si vedono all’orizzonte protagonisti assoluti, provenienti dall’associazionismo, capaci di incidere sulle scelte politiche in materia di trasporti e logistica? E, restando sul tema, Lei crede che ci sia davvero la volontà di creare una Coldiretti del mare?

“Parto dall’ultima domanda, non c’è al momento la volontà di creare una Coldiretti del mare. Faccio l’esempio della Federazione del Mare che, pur esistendo da anni, non riesce ancora oggi a essere rappresentativa dell’intero settore della portualità e della logistica in quanto non tutte le associazioni di riferimento hanno voluto cedere ad essa funzioni e poteri.

Il grande limite, in generale, che si incontra nel mondo associativo è proprio questo: non si riesce quasi mai a bilanciare i vari interessi in gioco e c’è sempre qualcuno che prevale sull’altro. Servirebbe, dunque, un approccio più innovativo e costruttivo sul punto visto che, comunque, ci sono nel panorama nazionale soggetti associativi – penso ad Assoarmatori e ad Aero (Associazione delle Energie Rinnovabili Offshore) – in grado di concepire la loro missione in maniera più propositiva e meno rivendicativa”.

Nel capitolo n. 21 del suo libro, dal titolo “Dalla politica di relazione a quella di regolazione”, Lei sostiene l’avvento dell’Autorità per la Regolazione dei Trasporti (ART) nel panorama nazionale. Non è un mistero, tuttavia, che l’attività di ART sovente venga criticata da alcuni movimenti di pensiero perché in potenziale conflitto con le prerogative del Ministero dei Trasporti. Ciò è avvenuto, per esempio, nel momento in cui – Lei stesso lo cita nel suo libro – ART ha approvato “Metodologie e criteri per garantire l’accesso equo e non discriminatorio alle infrastrutture portuali”. Cosa si può fare, a tal proposito, per armonizzare l’attività di ART rispetto a quella ministeriale? Esiste davvero una sovrapposizione di competenze tra ART e il Ministero dei Trasporti?

“Sono ben consapevole del fatto che, a livello generale, esista una allergia a certi modelli regolatori (come ART, per esempio) e che il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti non veda di buon grado la stessa Autorità dei Trasporti. Bisogna però convincersi che i soggetti regolatori forniscono trasparenza e chiarezza a livello normativo (penso, ad esempio, al prezioso contributo fornito da ART in materia di revisione delle concessioni aeroportuali e in tema di gestione delle concessioni portuali) e, dunque, agiscono a beneficio dell’utenza.

Non parlerei, pertanto, di sovrapposizione di competenze ma di mancato riconoscimento del ruolo di ART da parte del Ministero”.

Nel capitolo n. 17, dal titolo, “ADSP, Presidenti in cerca d’identità”, si legge quanto segue: “Nessuno, nel settore aereo, si sognerebbe di dar vita alle polemiche e agli scontri che quotidianamente avvengono sulle banchine. Questo non significa che il modello che regola gli aeroporti sia mutuabile come tale, come invece qualcuno propone, perché il mercato di riferimento è profondamente diverso”.

Le domando Dott. Merlo, cosa si intende per “mercato completamente diverso”? Quali sono, a suo parere, le ragioni per le quali la governance portuale non è sovrapponibile a quella aerea?

“Perché, appunto, il mercato aeroportuale è completamente diverso da quello portuale dove, invece, abbiamo molti più interlocutori, sia pubblici che privati. La vera distinzione di fondo tra il settore portuale e quello aeroportuale è proprio questa. Le società di gestione degli aeroporti hanno, appunto, poteri gestionali mentre le ADSP, avendo ruoli regolatori, non dispongono di analoghi poteri. Anzi, spesso sono state percepite – negli anni immediatamente successivi alla riforma dell’84/94 – in maniera ambigua dall’utenza (penso, ad esempio, a quanto è successo nei vecchi Comitati Portuali) e tutto ciò ha in qualche modo compromesso la loro operatività”.

“Sono consapevole che questo rappresenti un tema divisivo, ma la realtà dei fatti indica che più si sottrae la portualità italiana ai localismi e agli interessi di parte, e più si potranno dispiegare le sue enormi potenzialità. Attribuire più poteri a Regioni e Comuni, oltre a riaccendere sfide campanilistiche e creare duplicazioni di investimenti inutili a distanza di pochi chilometri, annullerebbero il ruolo dei presidenti delle ADSP, i quali, di fatto, sarebbero di volta in volta commissariati dal presidente della Regione o dal sindaco, snaturando così le funzioni di programmazione e gestionali delle stesse ADSP” (capitolo 20, Una nuova possibile riforma).

Dott. Merlo, Lei ritiene che la sottrazione della portualità ai localismi e agli interessi di parte sia possibile con una gestione pubblica dei porti?

“Certo che è possibile, assolutamente, ma bisogna fare in fretta. Per anni ci siamo affidati a una regolazione di tipo spontainestico, demandando alle singole ADSP la gestione di questioni complesse (ad esempio, il rilascio delle concessioni ex art. 18, Legge 84/94). Questo, oggi, non è più possibile visto che i sistemi portuali operano su scala internazionale e ciò incide radicalmente sulla competitività dei singoli scali e dei sistemi stessi.

Proprio perché le regole del gioco sono diventate globali (Niente è più globale dello Shipping), non è più possibile agire seguendo logiche nazionali. Peraltro, i traffici (ad esempio, quelli container) sono in stagnazione da anni e ciò significa che le cose non stanno funzionando per il verso giusto. Serve, pertanto, una governance nazionale che razionalizzi e coordini i vari sistemi portuali.

Ripeto, bisogna fare in fretta, cercando di intervenire sull’attuale quadro normativo lavorando su una serie di istituti da introdurre, ad esempio, con una legge finanziaria. Perché, lo sappiamo tutti, le riforme portuali notoriamente sono accompagnate da un ampio dibattito e non sono mai immediate”.

Nel capitolo n. 30, dedicato alla nuova funzione energetica dei porti, Lei scrive: “Centrali che chiudono o che potrebbero essere riconvertite a gas, sovente con forti resistenze delle comunità locali. In tutti i casi, queste trasformazioni liberano importanti aree strategiche, da destinare ad altre funzioni e spesso si ipotizza una loro riconversione ad attività logistiche. Non a caso, Enel ha dato vita a Enel Logistics, una società che ha proprio lo scopo di riconvertire queste aree. Come sempre, tutto avviene nella completa assenza di una visione generale. Enel fa il suo mestiere correttamente dal suo punto di vista, cerca di valorizzare il proprio asset. Nessuna amministrazione riflette, tuttavia, sulla possibile destabilizzazione del sistema logistico nazionale” ecc.

Secondo Lei, considerando i piani infrastrutturali del PNRR e l’avvento della ZES unica nel Meridione, ci sono effettivamente rischi di destabilizzazione del sistema logistico nazionale?

“Ci sono rischi di destabilizzazione poiché c’è la possibilità che si configuri una sovraccapacità di offerta logistica. Prendiamo ad esempio la perimetrazione delle aree ZES nel Meridione: l’eccessiva perimetrazione di queste aree, a mio parere, implica tout court l’assenza di una pianificazione di base. E, temendo che il Ministero non disponga di tutti i dati necessari per poter pianificare, bisogna procedere con cautela nella previsione di nuovi siti logistici.

Sarebbe auspicabile in tal senso coinvolgere gli operatori privati nella pianificazione di nuove aree e controllare puntualmente l’attualità e l’utilità degli investimenti pubblici in tale ambito. Perchè, ricordiamocelo, le ZES non devono per forza significare nuove aree logistiche e, soprattutto, bisogna pensare a far funzionare quelle già esistenti”.

Arrivato a questo punto, dopo aver esaurito le mie domande, provo a tracciare qualche considerazione.

L’opera di Merlo, per bocca del suo stesso autore, “non nasce con l’ambizione di avere un valore scientifico, bensì per suggerire […] una possibile strada. Animando un dibattito teso a consentire al nostro Paese di affrontare in chiave moderna le moltissime opportunità che la cosiddetta Blue Economy oggi offre”.

Dunque, le considerazioni contenute in questo libro potrebbero, al netto di opinioni diverse, non avere quella maturità necessaria per poter essere convertite in proposte immediatamente fattibili.

Cadrei in errore, tuttavia, se mi limitassi a esaminare queste considerazioni su un piano di mera fattibilità. Perché le stesse, pur dovendo ancora svilupparsi appieno, toccano tutti quei nervi scoperti che il nostro sistema Paese non ha mai voluto pienamente gestire: la centralizzazione delle strategie e la conseguente razionalizzazione degli investimenti, la creazione di sistemi portuali competitivi, l’adozione di logiche privatistiche nella gestione pubblica degli scali, il rafforzamento del sistema associazionistico settoriale e via discorrendo.

Gli spunti contenuti in questo libro, pertanto, non possono che essere il punto di partenza di un grande, impegnativo, progetto di riforma del settore. Un progetto che metta al centro dell’agenda strategica governativa il mare e che si preoccupi di superare tutte quelle storiche resistenze subite dalla portualità e dalla logistica: “quelle della politica che non vuole rinunciare a importanti prerogative, per di più in ambiti che presentano strette connessioni con la politica economica, industriale e sociale; quelle della burocrazia ministeriale che non intende perdere la propria influenza sulla elaborazione e sull’applicazione delle decisioni; quelle degli stessi operatori, e in particolare degli incumbent, che da una politica accondiscendente e un’amministrazione debole sanno di poter trarre maggiori benefici” (v. Alessandro Tonetti in L’Autorità di regolazione dei trasporti, Giornale di diritto amministrativo, 2012, p. 589 ss.).

Rivoluzionare la politica marittima italiana_